Direttore: Alessandro Plateroti

Le vicende di queste ultime settimane confermano, ancora una volta, la centralità del sistema bancario: la sua solidità, oltre che la sua credibilità, e quindi la fiducia dei risparmiatori e degli investitori, sono la garanzia più grande per la crescita. Non che altre tematiche (vd l’inflazione, lo “spauracchio” degli ultimi 18 mesi, o le varie situazioni geopolitiche che di volta in volta si verificano) non lo siano, ma, a confronto, diventano quasi dei “corollari”. Da qui il ruolo fondamentale delle Banche Centrali: in grado di influenzare l’economia in funzione delle politiche monetarie che intendono adottare, a volte “spingendo” sull’accelleratore, altre, come in questa fase, “pigiando” il pedale del freno. Ma, forse, ruolo ancora più importante, alla luce degli ultimi fatti, è la loro attività di controllo: solo attraverso regole e norme ferree il sistema può essere reso “resiliente”, in grado quindi di superare momenti di difficoltà, non per forza legate ad azioni “dolose”, quanto piuttosto all’insipienza, alla leggerezza, all’incompetenza, sin quasi all’arroganza, di molti manager.

La domanda, più che lecita, che molti si pongono è se “stiamo ballando sull’orlo di un burrone”.

A costo di apparire ripetitivi, sono doverose alcune considerazioni.

La prima e più importante è che oggi il sistema bancario globale, grazie, appunto, ad una serie di norme varate dopo la “grande crisi”, è più forte e solido rispetto a 15 anni fa. Oggi, per le Banche Europee, il Cet1 (il capitale primario) è al 14,8%, il “liquidity coverage ratio (il grado di copertura della liquidità “a vista”) è del 162%, le sofferenze all’1,8%. Un po’ diverso, se vogliamo, il tema riguardante la credibilità, per la quale non bastano bilanci solidi e conti economici positivi. Quella, evidentemente, è il frutto anche dei comportamenti e delle azioni non solo delle persone chiamate a guidarle, ma anche dalla correttezza di chi ogni giorno “porta in giro” il loro nome. Oggi le banche devono avere requisiti innanzitutto patrimoniali in grado di garantire il verificarsi di situazioni difficili: per questo sono monitorate continuamente, in primo luogo quelle ritenute “sistemiche”, con appositi “stress test” che le Banche Centrali svolgono in maniera sistematica.

Va detto, peraltro, che non esiste una “regola” unica, valida per tutto il sistema: ogni Banca Centrale (e, spesso, ogni Governo) applica regole proprie, anche se il sistema “globale” comunque “si parla” (e quindi vi sono punti di contatto). Ne abbiamo avuto un chiaro esempio proprio in questi giorni, di fronte alla crisi del Credit Suisse, nel caso dei bond At1 (quelli definiti “ibridi”, in grado di trasformarsi da strumento di debito a capitale). Mentre la normativa BCE li tutela maggiormente (i creditori dell’Istituto eventualmente in crisi vengono tutelati in “seconda battuta”, intervenendo in “primis” sul capitale), per la BNS, la Banca Centrale Svizzera, i possessori di questa particolare tipologia di titoli sono i primi ad essere colpiti (tant’è vero che il loro valore è stato azzerato, suscitando non poco clamore e proteste).

Si può dire, in estrema sintesi, che il sistema europeo sia più “normato” di altri, in special modo di quello americano, il “grande accusato” di queste settimane. Questa rigidità, se in alcuni momenti può sembrare penalizzante per la redditività sistemica, in altri si rivela un “paracadute” indispensabile.

La crisi “subprime” del 2008 è deflagrata, di base, per l’estrema esposizione al settore immobiliare delle Banche (nel tentativo di “ridurla” hanno poi “impacchettato” la loro esposizione, ergo i mutui, in strumenti finanziari, poi rivenduti, con il risultato che il crollo del “sottostante” ha fatto cadere il castello). Oggi le cose sono ben diverse: fermo restando l’assunzione di garanzie molto importanti, “l’impacchettamento” è una pratica oggi non così diffusa. Al di là di questo, l’esposizione delle Banche Europee sul settore degli immobili commerciali, quello ritenuto più a rischio, essendo legato all’attività economica, è, rispetto alle Banche Usa, molto inferiore.

L’altro grande problema, nel 2008, furono i derivati, che avevano raggiunto dimensioni non più gestibili. Oggi, per quanto ancora importanti, hanno livelli ben inferiori; ma, soprattutto, sono in gran parte “controgarantiti”. Quindi, anche in caso dovessero essere chiusi “in perdita”, i rischi sarebbero gestibili. Si è molto parlato, in questi giorni, dell’esposizione su questo strumento da parte di Deutsche: in realtà, l’Istituto tedesco risulta allineato con altre banche, come JP Morgan e Goldman, per cui non ci sono particolari motivi di preoccupazione, né nel caso specifico, né a livello di operatività sistemica. Va detto, peraltro, che quando si parla di rischio contagio, questo potrebbe essere “l’anello debole”, essendo tutte le banche, di fatto, tra loro interconnesse.

Sul tema della liquidità c’è poco da dire. Difficile che, in Europa, si possa verificare quanto successo alla Silicon Valley. Un po’ perché il livello di liquidità, come detto prima, è ben più alto rispetto al sistema americano. In caso di “corsa allo sportello” da parte dei clienti, quindi, le banche non sarebbe costrette a vendere “asset”, come nel caso della banca californiana, “monetizzando” le perdite. In soldoni, le banche europee potrebbero sopportare fuoriuscite pari al 13% dei loro depositi senza andare ad intaccare il livello di liquidità di “sicurezza” (liquidity coverage ratio).

Rimane il tema della gestione degli accantonamenti. Anche su questo tema, le differenze con il sistema americano sono evidenti: da noi non sarebbe possibile che gran parte degli investimenti avvengano in strumenti, per quanto sicuri, a medio-lungo termine, i più sensibili alle politiche monetarie (si calcola che le perdite “potenziali”, per le Banche americane, potrebbero essere, nel caso dovessero vendere, di $ 600 MD). In Europa le banche hanno in portafoglio circa € 3.300 MD di titoli, di cui solo una parte “held to maturiy” (detenuti sino a scadenza). Ciò significa che, nel caso in cui si dovesse procedere a dismetterli, le ricadute sarebbe ben più modeste.

E quindi, ancora una volta, come diceva, nei Promessi Sposi, Antonio Ferrer, Gran Cancelliere di Milano, “adelante, Pedro, con juicio, se puedes”.

Avvio di giornata frizzante questa mattina ad Hong Kong. Il merito va ascritto ad Alibaba, in rialzo del 13% dopo la conferma dello scorporo in 6 divisioni, tutte sotto il controllo di una Holding, che potrebbero essere quotate. L’Hang Seng sale di quasi il 2%, mentre l’indice di Shanghai si muove al momento intorno alla parità. Bene anche, a Tokyo, il Nikkei, in crescita dell’1,38%.

Futures in rialzo, con crescite superiori allo 0,5% un po’ ovunque.

Petrolio sempre tonico: WTI a $ 73,88, + 0,83%.

Gas naturale Usa a $ 2,153 (+ 0,14%).

Leggera retromarcia (– 0,57%) per l’oro, a $ 1.964.

Spread a 182,6 bp, con il BTP al 4,13%.

Treasury Usa al 3,57%.

Lieve rafforzamento per l’, che tratta a 1,0827 vso $.

Si riprende il bitcoin, che torna verso $ 28.000 (27.666).

Ps: e quindi, oramai, è pressochè cosa fatta. Dal 2035, in Europa, non potranno più essere vendute auto con motori tradizionali, vale a dire alimentati a benzina e diesel. Ieri a Bruxelles è stato trovato un accordo tra i Ministri dell’ambiente dei 27 Paesi UE (anche se non all’unanimità: tra gli astenuti e contrari ci siamo anche noi) per regolamentare l’uso dei motori elettrici e gli e-fuel (richiesti dalla Germania), mentre non è stata accolta la proposta italiana di inserire anche i bio-carburanti (da qui la nostra astensione). Se qualcuno aveva dei dubbi su quale industria automobilistica fosse più forte, da oggi ne ha qualcuno meno.

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ultimo aggiornamento: 29-03-2023


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